domenica 8 marzo 2009

martedì 3 giugno 2008

Lo scirocco dentro il cranio.

Pensavo a me stupidissima e a come la mia vita da lunga e continuamente lineare si era fatta breve e frammentata, composta da scomparti, riempiti intensamente certo, ma conclusi sempre così rapidamente, così penosamente. Mi dicevo anche che era tempo che io la smettessi di agitarmi così tanto: e leggevo nella tachicardia del giorno passato il segno del fallimento attuale.
Come il dettaglio di una macchia di vino su un tappeto altrui diventa il simbolo di un’autonomia non ancora pienamente posseduta, allo stesso modo mi si chiede dove ero stata, prima, e la mia presenza, ora, ed il ritardo della conquista, poi, si traducono in questa lacuna da colmare, ultimo tappo per la completa padronanza dell’indipendenza.
Ecco, così ci si racconta la propria storia, come potrebbe farlo una donna di successo aspettando un treno che la porta lontano. Perchè si sceglie un treno invece di un aereo o di un auto comodamente guidata da altri; per vedere un indefinito uniforme scorrere dal finestrino, per dormire rintontiti dal meccanico passaggio sulle rotaie, per la nebbia che si forma intorno alla mente al consapevole abbandono in cui sui cade, durante un viaggio del quale si conosce la meta ma non le fermate intermedie. La certezza di un punto d’arrivo, l’ignoranza del mare di mezzo. Un viaggio in attesa, per raccontarsi la propria storia.
Si guida tra le strade bagnate, l’asfalto umido di pioggia appena caduta, il cielo carico di afa gocciolante, prosegue sul percorso, rallentato, verso un’ora, più che un appuntamento. Si comprende che come i luoghi carichi di fascino, i navigli si appropriano del loro vero senso solo sulla via della schiarita, alle spalle, e nera tempesta, all’orizzonte. Le acque scure, indefinite nella loro consueta sporcizia danno reale dimora ai piccoli battelli solo in questo tempo, quando il confine tra il filo del canale e il legno marrone si confonde in un unico sciabordio immobile. Gli alberi ricchi di verde del maggio inoltrato, splendenti ancora prima della calura estiva, colmi di foglie e quasi fuori luogo nel loro naturale splendore, dentro la città grigia che tutto nega al crescere di uno stelo d’erba. Che tutto nega al crescere, al nascere, forse. Una folla ancora poco nutrita rispetto all’usuale via vai del rituale cammina frettolosa, ancora incerta del passo che l’atmosfera intende farle prendere; si muove con una rapidità speciale, traccia inconscia di un passato campestre, animale a volte. L’incedere rapidissimo di chi si racconta da dove viene, e perchè, ancora nel cuore la spensieratezza di un peso di dovere momentaneamente tolto, negli occhi i progetti rosei di chi ancora non sa cosa aspettarsi, cosa volere. Il caro vecchio Giacomo accusato di infantilismo, di adolescenza comune e lacrimosa come quella di tutti, mentre osservava che l’attesa è la più calda delle felicità, la più labile ed irreale, eppure l’unica che davvero si può possedere.
Insomma. Possiamo davvero sostenere ora, che lo sbaglio sia non tanto dirigersi verso la parte oscura, quanto non apprezzare quella chiara.

“Sto solo cercando di disporre questo confuso in un ordine più o meno plausibile”.

Dalla prospettiva attuale, le cose appaiono ancora parecchio confuse. Ho sempre desiderato iniziare un testo partendo “dalle prospettive attuali”, e penso che farlo adesso abbia più senso che altrove. Parlare di prospettive ora, in un periodo che sembra dedicato al disordine e all’irresponsabilità, mi sembra - per assurdo - la cosa più sensata, e allo stesso tempo - paradossalmente - l’unico modo che conosco per riassestare quegli equilibri scardinati ripetutamente da quelle che - irresponsabilmente - chiamiamo malvagie condizioni esterne.
Dalla prospettiva attuale, gli ultimi giorni appaiono nuovamente parecchio confusi. Agitati e, conseguentemente, estremamente confusi, arrabattati, accavallati, annodati, ingarbugliati alla Carlo Emilio. Dipanarli è impossibile, e qualsiasi sforzo viene frenato sul nascere da una inetta pigrizia carica di contorsioni intestinali. Un sacco di cacca, anche.
Dalla prospettiva attuale, le persone appaiono sorprendentemente piene di problemi.
Le persone sono davvero piene di problemi: e il problema non è solo il tuo, quel problema dell’essere te che ancora non sai bene che è, se lo è e perchè; i problemi sono ovunque, si attorcigliano alle gambe magre del ragazzo di fronte, lassù incastrate negli occhialetti mesti di quell’altra, colpiscono il cranio della tua amica, si insidiano nel cuore del suo amico, risalgono per le vene di una persona che c’era e che ora non c’è più, ritornano come vendetta verso l’inguine di belzebù, disegnano costellazioni tra le lentiggini di quell’altro e annodano la barba dell’amico perduto, soddisfano le sfortune delle amichette più care, si risvegliano negli animi più pacati, sobillano i malvagi, aizzano i violenti.
Dicevamo cacca, appunto.

lunedì 7 aprile 2008

Eppure non sento la brezza dell'impegno civile.

Ecco come la mia intenzione di fare campagna elettorale si è pietosamente convertita in una declamata e sentita ode al votante medio, al pericolosissimo votante medio. Non so quale deviata congiura mentale ha preso posto nella mia psiche, per rendermi talmente adorante verso qualcosa che assomiglia tantissimo, troppo, ad uno stereotipo consunto. Anche se non si dice di Walter (che ben lontano è dall’immagine qui sotto riprodotta), volevo sostenere una causa diversa da quella politica, eppure neanche poi così lontana. Lo slancio enfatico verso un tale - per me Nuovo - Uomo potrebbe all’apparenza suggerire una qualche pulsione sessuale, forse un desiderio represso, o magari una fantasia un poco sporcacciona; nulla di tutto ciò. Mi sono sempre tenuta alla larga dal modello muscoloso e virulento che frotte di donnicciole andavano pubblicizzando intorno a me, a partire dalle amichette più care, che sostenevano la supremazia della tipologia “carnazza”, colui che possente, e massiccio senza essere fisicamente invadente, si diceva “facesse sangue”. Ebbene, tuttora sono lontana da sentirmi attratta da un certo tipo di uomo (non zarro, non burino, ma semplicemente troppo italiano), ma riesco progressivamente a percepire il fascino sottile di ciò, di chi non m’appartiene; di ciò con cui non ho mai avuto nulla a che fare, di chi mi è sembrato sempre troppo selvatico per poter interessare i miei canoni tutto intelletto e niente corpo, verso personaggi certamente piacenti e abili, ma, come dire, troppo addomesticati da un modello cosmopolita e internazionale.
Da quando, a diciott’anni ho conquistato la mia cittadinanza italiana, non mi sono più nascosta affermando di essere straniera, ho smesso di tapparmi le orecchie al primo suono di mandolino, ho interrotto la pietosa crociata contro lo schiamazzo italiota. Anzi. Anzi, mi sono sorpresa a ballare la pizzica, ad commuovermi di fronte a scenate popolaresche, ad entusiasmarmi di fronte ad un teatrale e folcloristico “ma quanto sei bedda”; non mi sono riconosciuta, mentre invidiavo agli amici le loro origini liguri, toscane, calabresi, l’accento romano di uno e quello siciliano di un altro. Ho preso a sorridere, quando in terra straniera sentivo un lontano ma forte parlottare, certamente molesto il più delle volte, ma a tratti tenero, sì, tenero, e commovente. Ho iniziato a provare una profondissima tenerezza verso il paese in cui sono cresciuta, ma che per spocchia avevo sempre tenuto un po’ a distanza. Era l’anno delle elezioni, quelle in cui sudavo freddo, leggevo i dibattiti, mi agitavo, sbandieravo, trombette e bandierine, nacchere, coriandoli, e infine festeggiavo. Si è perso quel clima di moto, almeno in me, nonostante il cambiamento pare esserci davvero, alle porte almeno, sembra davvero che la ginnastica si stia facendo da qualche parte, ed io ci credo, nella modernità attiva ed efficace di qualcuno che guarda oltre, verso un altrove europeo e soprattutto ricco di affetto e di impegno chiaro ed onesto per il proprio paese. Si è perso in me l’impeto della polemica, forse per una prospettiva più sconsolata, più disfattista, più vecchia; non si è perso però quel senso di appartenenza ad una realtà il più delle volte troppo rumorosa e poco discreta, ma mai mediocre, mai indifferente, calda, coinvolta, partecipe, completa. Ed insieme al mio patriottismo da autodidatta e principiante, è rimasto anche quel nuovo sguardo femminile ed eterosessuale di cui qui sotto si ha una più chiara esplicazione. Così il mio degradante tentativo di dire alle folle “Wota Walter! Wota Waler! Wota Walter!” con lo slancio di Antonio De Curtis si è trasformato in una macchietta - sincera e ricca di trasporto certo, ma sempre macchietta - dell’italianuccio trallalà. Che importa: l’amo lo stesso.

Collo grosso, spalle enormi, dita della mano pesanti, gambe come colonne scure, ciglia nere lunghe, e se non sorridesse continuamente (questo lo alleggerisce: ride molto bene, gli dona, e lo sa!) direi... persino... massiccio.
Solo ultimamente mi pare che l'uomo italiano possieda il presunto fascino che l'internazionalità gli ha sempre attribuito. Quelle sopracciglia spesse ma mai troppo vicine, anzi ben delineate, spesso corrucciate in un modo un po' infantile ma carico di pensieri e leggerezze un poco preoccupate, sempre intento a ritrovare il modo in cui arrabattarsi. Le labbra carnose, scure, vere labbra, non sottili linee poco colorate, ma presenti, morbide e serrate. I denti sono dritti, fortissimi, non gialli e separati come accade a chi più sopra beve troppa birra. Il mento pronunciato, spesso un po' troppo, tondo, vistoso. Gli zigomi limati e poco sporgenti, forti come le guance scure; non appuntiti come si usa all'est, non estesi per lungo tratto come corpi estranei al viso; zigomi poco zigomi, insomma. Gli occhi. Gli occhi scuri, in cui pare non esserci nulla, in cui la profondità si percepisce dalla superficie più prima, occhi scurissimi, ma a volte anche verde, di un verde oliva amaro, colmo di ombre e picchi di luce aranciata, come al tramonto. La barba ispida, grossa, vera barba, peli sicuri che tagliano la pelle e si rizzano in piedi come inorgogliti per la troppa forza, per le troppe lame che li hanno tagliati, peli che sanno cosa significa essere emarginati. E lasciamoli crescere questi peli, queste barbe, questi baffi, queste basette!

Così almeno impone la tradizione di pettini d'avorio, e unguenti unti, profumati, spalmati su teste ordinate in fitte righe di capelli scuri, spesso, capelli neri, neri capelli neri.

Solo ultimamente dunque sembra esserci un vero uomo italiano, bello, forte, un po' ingenuo forse, ma sempre con l'ingegnosità di chi all'ultimo riesce a cavarsela meglio di chiunque altro.
Questo nuovo uomo italiano, così italiano in tutta la sua volgarità mascolina, latina, scura; questo nuovo maschio italiano pieno di coriandoli e spiritosaggini popolaresche pescate alla rinfusa dal grande calderone dell'ignoranza; un'ignoranza però benigna, tutta natura, tutta tradizione.
Pare che nel grande mercato dell'uomo, quello italiano occupi ora un posto di primaria importanza, anzi l'ha sempre avuto quel posto, gli spetta per davvero il primo ripiano dello scaffale, ma solo ora me ne rendo conto, solo ora azzecco il segnale di italianità verace e tutta da mangiare, latineggiante ma più saggia che mediterranea, più rapida e agile e vivace che meridionale; solo ora riesco a capire - e probabilmente meglio di altri - cosa sia questo uomo italiano: bello, proprio bello.

lunedì 31 marzo 2008

Lontano dalle griglie interpretative.

Un buon proposito per l’anno appena cominciato. Un buon proposito per la nuova stagione, che perfettamente si accompagna alla luce della nuova ora, del nuovo tempo luminoso e caldo. Un nuovo proposito: liberarsi dalle griglie della paranoia.
Fin da quando ha avuto inizio la maturazione psicologica e la formazione “letteraria” (se tale si può definire), siamo stati educati a leggere i segni nei segni. In ogni gesto, in ogni parola, nostra o d’altri, ci siamo impegnati per trovarvi un altro significato, un Significato Altro, Il Significato. Dopo una lunga casistica in cui le condizioni apparenti disegnavano qualcosa che era in realtà un Altro, ci eravamo convinti che l’allegoria dominasse il mondo, e gli individui. Il caso, appunto, sembrava gridare al fuoco, ogniqualvolta lampeggiava nelle nostre menti qualcosa che stimolava l’interesse, come se il qualcosa ci fosse stato gettato tra le mani con l’unico scopo di scoprirvi il vero velato, da una prima volgare menzogna. Con presunzione e insistenza sostenevamo di ricevere segnali mediocri per una verità più profonda, e con tenacia continuavamo il nostro lavoro di scavo, individuando in ogni singola frazione di vita e di spazio un universo meraviglioso, e solamente a noi dedicato. L’operazione egocentrica di leggere in ogni tratto umano ed esistente un messaggio ultimo solo a noi rivolto, ha condotto a soluzione brillanti, fantastiche, fonte di gioia; il più delle volte, però, meramente consolatorie. Ci siamo spesso convinti che ciò che era accaduto per farci male, in realtà esigeva solo un’interpretazione più accurata, rendendo la cattiva realtà semplicemente più semplice da sopportare. D’altro canto, quando una circostanza appariva imprevista, e piacevole allo stesso tempo, riusciva difficile accettarla così com’era, semplicemente bella: senza perdere tempo ci si immergeva allora in malsane elucubrazioni, in girotondi mentali, il buie riflessioni senza uscita. Fino a quando, fino a quando non si arrivava a negare l’evento, intravedendo i cupi toni della disfatta: l’apocalisse al condizionale. Il consueto fallimento sembrava a volte così raro da evitare e la felicità precaria così faticosa da possedere, che non sembrava esserci altra strada percorrere, se non quella, nascosta, della scorciatoia celata agli occhi dei più.
E allora uno pensa: se avessi detto questo invece di quello, o quello invece di questo, se mai mi fossi alzato tardi invece che presto, o presto invece che tardi oggi sarei impercettibilmente differente, e forse tutto il mondo sarebbe impercettibilmente differente. O sarebbe lo stesso, e io non potrei saperlo. Ma per esempio non starei qui a raccontare una storia, a proporre un rebus che non ha soluzione, o ha una soluzione che è inevitabilmente quella che ebbe e che io ignoro, e così la racconto a qualche amico, ogni tanto, raramente, bevendo un bicchiere, e dico: ti propongo un rebus, vediamo come lo risolvi. Ma poi perchè a lei interessano i rebus, ha la passione per l’enigmistica, o forse è solo la curiosità sterile di chi osserva la vita altrui?
Ci si riempie così la vita di tortuosi trabocchetti da evitare, pericolosi fossati da scavalcare, piccoli tranelli la cui soluzione diventa indispensabile per trovare il giusto senso, per possedere Il Senso. La vita diviene un enorme percorso ad ostacoli, che minuziosamente ci prepariamo: apparentemente per renderla più difficile. Realmente per renderla più difficile.

Ora si vedranno le cose, così come sono; e se qualche volte si vedranno i segnali di una realtà altra, allora la si vedrà solo tra le pagine di un libro, negli interstizi di una frase, nell’onda di una parola. Non altrove. Certamente tra le vie della letteratura, mai altrove.

domenica 24 febbraio 2008

I bambini che corrono fuori e cantano forte, urlando. Il sole di febbraio come quello di maggio, la domenica e viale Lattuada, come un ritaglio di spiazzo d'oratorio, con le pareti apriche e scrostate di verde.
E' questo il giorno che riesce difficile vivere, carico di serenità apparente e di cambiamento. Questa tiepida brezza così primiera che sembra voler anticipare, con una forza sfacciata e violenta, l'esplosione dei mesi avvenire. Quasi offensivo, il merlo che corre in picchiata dai panni stesi allo sbattere di finestre; quasi insolente, il caldo che accoglie all'aria aperta. Non è ancora. Gli uccelli fuori tempo cantano, e tutto mi pare commovente e tristissimo.

Mi historia, algunos casos que recordar no quiero

lunedì 7 gennaio 2008

Fior di figliuolo - ho preso in mano i cazzi - di decine di ragazzi - ma ho voluto bene ad uno sooolo!

In quest'ultimo periodo la promiscuità è stata, da queste parti, davvero frequente.
A questo proposito, vorrei ricordare quanto sia eccitante il Primo Appuntamento. "Eccitante" nella vera accezione americana del termine, come di chi non sta nella pelle eppure un po' si gode l'attesa e la preparazione ad un tale piccolo grande evento.
Capitano a volte, però, degli imprevisti: quando a bidonare non si capisce bene chi sia stato.
Solitamente gli inviti che propongono una rapida birra dopo cena e poi proseguono a sorsi di gin tonic ascoltando un leggero jazz nel locale recentemente inaugurato dove da giorni si cerca di andare non si rifiutano molto facilmente. Soprattutto se a farli è qualcuno che si è perso di vista per molto tempo e che si incontra sporadicamente a festicciole giovanili; feste che si considerano ben riuscite solamente perchè tra le foto scattate all'occasione si possono contare svariati ritratti di qualcuno che vomita copiosamente, sorretto dagli amici. Se dunque, a distanza di mesi, ci si ritrova sempre - più o meno nello stesso luogo - a salutare gridando per la musica troppo alta un viso noto ma neanche poi troppo, con cui si è condiviso qualcosa per breve e lontano tempo, tempo riguardo al quale i ricordi sfumano e si perdono per la loro prossimità ad una coscienza non proprio padrona di se stessa, se, ancora una volta, il viso appare poco chiaro per il buio soffuso e la luce intermittente, per i troppi corpi che intorno ballano credendo davvero ( e con immenso errore) di fare qualcosa di necessario e non contingente ed in balia delle mode dei gusti della sfacciataggine, se, quindi, di nuovo e con stupore mai smesso, ci si avvicina alle guance di chi pensavamo per sempre scomparso dalla nostra vita, e si esclama con nuova e sinceramente recitata meraviglia "anche tu qui!", se tutto ciò avviene nuovamente nello stesso luogo e nella stessa occorrenza, non sembra esserci altro da fare che darsi un secondo, e più ragionato appuntamento.
Messo in conto tutto ciò, ci si sente dopo una settimana, l'attesa è coltivata con calma, nutrita con una maglietta nuova e un paio di cose da raccontare, un nuovo lavoro, il cambiamento di casa, si rimanda per impegni derogabili, e ci si riavvicina per indulgenza, si definisce un giorno e si aspettano ulteriori istruzioni. Ed infine l'invito si concretizza in quel fantastico programma di musica e lascivia, alcool e passeggiate, neve e inverno, metropoli e amore.
Si cena e si aspetta una risposta. Quando questa tarda ad arrivare la preoccupazione non c'è, ma l'errare per casa tramuta gli oggetti, le coperte diventano caldo giaciglio di prigrizia e crogiuolo di fantasie riposanti, letture quà e là tra pagine già lette, finchè tra il telecomando brandito per passare il tempo trova anche lo spazio di un paio di lacrime commosse per un reportage sulla mafia che ci fanno ricordare come maggiormente ci si dovrebbe dedicare a tematiche più italiane, più nostre, più alte della medesima. E quando, le speranze sembrano ormai perse arriva il promemoria definito, ilare, entusiasta, carico di aspettativa: tra un'ora al nuovo locale, arrivo, ti aspetto, essici! Fuori è notte non proprio fonda ma neanche così temprana, manca ben più di un'ora alla mezzanotte; il posto è lontano però, non distante, ma non poi così a portata di passi, è in un vicolo stretto, quelle stradine che per una decina di metri sono gremite di gente ma che poi sfociano in stradoni di circumnavigazione cittadina, ai quali incroci sicuramente si annidano rapinatori dai denti brillanti, stupratori appiatti sui muri che si muovono come ratti pelosissimi, spacciatori ubriachi che hanno dimenticato il proprio lavoro e si trasformano in ladri e violentatori; fa freddo, questo è verissimo, fa molto freddo e secondo i programmi il doppio strato di calze non può servire da armatura contro l'impietosa stagione del gelo, dal momento che ci si aspetta di sentire sfilato, insieme ad altro, quel sottile strato di cotone che a malapena copre le caviglie. E così si rimanda, per il freddo, il timore, la pigrizia, la voglia non troppo prepotente di incontrare chi certamente avremo occasione di "ribeccare" in giro, per caso. E lo stupore è ora sincero, quando si nota che dall'altra parte una certa insistenza esiste, non si sa perchè, forse per una promiscuità momentaneamente negata dalle altrui circostanze, forse per la necessità di tappare un buco in una serata di giorni festivi, forse - e qui davvero si sbarrano gli occhi - per il semplice piacere di incontrare qualcuno che per troppo tempo ci si era dimenticati di voler vedere.

domenica 9 dicembre 2007

Risolto il Cubo di Rubik

Di nuovo, e con intensità più coetanea e ventenne, si è abbattuta su di me una piccola ma pur sempre potente e dolorosa sventura sentimentale.
Dopo un paio di giorni passati a piangere ululando di giorno, con affianco la sola fidata amicizia del rotolo di cartaigienica, con pietosi tentativi di distrarsi guardando film d'epoca e di cultura, svegliandosi dopo ore davanti allo schermo in bianco e nero con la bocca aperta; dopo un paio di sere in cui certo non si pensa troppo ma si beve molto, si è giunti alla conclusione che è davvero in questi tempi di fredda solitudine della carne e dello spirito che si riesce a riflettere per bene su alcune questioni di assoluta non importanza.

E' giunta l'ora di sfatare la fuorviante e menzognera mitologia del romanticismo post-coitale.
1. Uno dei partecipanti o, nella maggior parte dei casi, entrambi, finirà prima o poi per correre in bagno a pulirsi. Nessuno riesce a dormire tranquillo con addosso quella sensazione di estraneità appicicaticcia, certamente intima e romantica, ma mai igienica.
2. Uno dei partecipanti o, nella minor parte dei casi, entrambi, si alzerà per frugare nell'armadio alla ricerca di un indumento brutto, largo, comodo e soprattutto rapidamente occultabile da indossare durante la notte. Se infatti, come sopraddetto, si fa parte di quella piccola ed un po' sfortunata minoranza che prende freddo facilmente e di conseguenza altrettanto velocemente si ammala, bisognerà stare attenti al piumone che così raramente capita di avere addosso, e considerare attentamente il fatto che a notte fonda i termosifoni non emettono calore, e che nessuno si prenderà la briga di rimboccarvi le coperte: risolte queste accortezze certamente non vi accadrà di rimanere senza voce per una settimana, con il naso gocciolante per due e in astinenza per tre (sì sa, il catarro non è un afrodisiaco). Ah ed un piccolo consiglio: per quanto alto sia il prezzo e per quanta lana e cotone e pizzi e nappe e rose e sete e rasi vi siano nessuna vestito da notte è contemporaneamente bello, funzionale, attraente, comodo e caldo.
3. Nella maggior parte dei casi non si fumerà mai con lascivo e goduto abbandono, avvolti tra lenzuola che ci piace immaginare di seta: molto spesso ad uno o ad entrambi i partecipanti (sopratutto al proprietario del letto utilizzato) non farà piacere svegliarsi tra nuvole di fumo anzichè in quelle di cuoricini e putti saggittari; come in molti altri luoghi è vietato fumare; come dopo pranzo la sigaretta negata al ristorante, allo stesso modo dopo l'amplesso si soffre parecchio a fumare nel freddo del balcone con una sgualcita magliettina addosso.
4. E poi, voi registi hollywoddiani, parigini ed anglosassoni, sarebbe ora di smetterla con i film sentimentali in cui l'apice dell'equilibrio e della serenità amorosa si raggiunge nel bacio mattutino - al risveglio dopo una lunga ed aerobica notte - che pare suggellare una continuazione, una sicura e confortevole promessa d'amore più o meno eterno. Ed invece no! Non è vero! Non ci si bacia appassionatamente la mattina dopo: l'alito di entrambi puzza troppo! Anche se nelle svariate scappatelle in bagno ci si può intasare di dentifricio la mattina seguente un profondo olezzo di morte acida giace in entrambe le bocce, appoggiato sui palati e adagiato sulla lingua: ci si potrà accontentare solo di un respiro affannoso e del patetico bacetto a labbra serrate.
5. Ed ancora: un appello a coloro che amano dipingere il risveglio come dolce e solare, dove boccoli biondi rotolano giù da cuscini di raso, e labbra socchiuse sospirano parole di felicità; dove ancora palpebre lisce si schiudono lentamente, e le ciglia sono solo il decoro di pupille delicate ed assonnate. Macchè! Cumuli di capelli arruffati, nessun segno di mollezza e ricciolitudine accennata tra una ciocca e l'altra: un'unica matassa informe che non lascia passare in mezzo neanche le dita. Le labbra secche, assetate, riunchiuse dalla bava persa di notte; palpebre e ciglia come cerniere lampo, annodate tra loro per il trucco rimasto ed un paio di cispi, grumi di correttore si annidano negli angoli e vedere è un'impresa impossibile.

In realtà, anche se afflitta da dolorosi ricordi e dolorose mancanze, in fondo non è poi così male, e se è un prezzo da pagare per la felicità precaria che tutto ciò determina, sono ben felice di spendere.